Afghanistan Sguardi e Analisi

Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

martedì 28 settembre 2010

Intervista al comandante taliban Muneeb: il ruolo degli Improvised Explosive devices

Tecnica offensiva vincente sotto tutti i punti di vista: basso costo, semplice, efficace. Gli Improvised explosive devices (Ied) sono una delle armi vincenti dei gruppi di opposizione impegnati nella “guerra di liberazione” afghana, certamente la più insidiosa per le forze di sicurezza. Bombe esplosive, collocate lungo le principali vie di comunicazione, sempre più potenti, efficaci e di elevato rendimento in termini di danni inflitti al nemico, danni che si misurano in numero di morti: l’Ied è l’arma più efficace ed economica. Il numero di attacchi ha superato cifra 8.000 nel 2009, un incremento notevole rispetto ai poco meno di 2.700 del 2007, ed è la principale causa di morte tra i militari stranieri.
L’evoluzione della tecnica e la veloce risposta alle contromisure adottate dai militari occidentali non riescono a essere contrastate prontamente e in maniera efficace dagli specialisti della minaccia asimmetrica. Gli insorgenti, studiando le tattiche e le procedure militari delle forze della Coalizione, imparando dai propri errori e scambiando informazioni con i vari gruppi regionali, sono riusciti progressivamente a guadagnare terreno sul campo di battaglia portando a segno un elevato e progressivo numero di attacchi. E nonostante le azioni mirate volte a colpire i vertici di comando, quello dei taliban – e di tutti i movimenti e le fazioni che a essi si richiamano –, i risultati non riescono a compensare la capacità di adattamento di un’insorgenza che si presenta come un mondo dall’indefinita gerarchia di comando e caratterizzato da ampia autonomia sul terreno che ottiene una sempre più veloce e impressionante espansione geografica. Questo significa che vi è un adeguato livello di coordinamento e collaborazione tra le unità “insurgent” sul terreno.
Nel 2009 i gruppi di opposizione hanno portato a segno in media ventidue attentati Ied al giorno, e i risultati sono stati disastrosi dal punto di vista della logistica della missione internazionale: movimenti limitati, ridotta velocità di spostamento, pericolo per la sicurezza fisica del personale e dei mezzi.
Tutto questo è il risultato di un’organizzazione militare di alto livello, come testimonia Qari Khairullah Muneeb, comandante taliban delle “unità Ied” dell’area di Dand nella provincia di Kandahar, intervistato da Al Emarah Jihadi Studio, l’organo di propaganda dell’Emirato islamico dell’Afghanistan.
La testimonianza del comandante Muneeb, per quanto parziale, ha il grande merito di presentare un aspetto importante dell’organizzazione militare dei taliban: la capacità di comando e controllo.
Muneeb, originario di Spin Boldak (provincia di Kandahar), è a capo delle “unità Ied” che si occupano di colpire le truppe straniere e le forze di sicurezza afghane attraverso attacchi diretti lungo le principali vie di comunicazione. Unità, divise in 37 sezioni, che sono operative su base distrettuale. Si tratta di unità, denominate Brigate ma dalla consistenza numerica di alcune decine di individui ognuna, composte da specialisti addetti agli esplosivi, nuclei di sicurezza e supporto alle operazioni, trasmettitori, informatori e facilitatori. Un’organizzazione flessibile, fluida, in grado di muovere e combattere sul campo di battaglia per poi diluirsi all’interno delle comunità locali.
Unità agili e ben coordinate, e al tempo stesso autonome. Un’autonomia che ha consentito, e consente tuttora, di ottenere grandi risultati. Da un lato, costringe le truppe afghane e della Coalizione a diminuire i movimenti via terra e a ridurre la presenza sul territorio con conseguente ridimensionamento della capacità di controllo effettivo delle aree di operazioni, dall’altro, gioca un ruolo fondamentale nel condizionare il morale delle truppe e l’opinione pubblica locale.
Dunque, stando così le cose, l’impatto della tecnica Ied contribuirà a rendere più pericolosa la missione per gli eserciti occidentali in Afghanistan? Sì, secondo il comandante Muneeb. Sì secondo il parere di chi scrive. I risultati sinora ottenuti hanno consentito di adeguare sempre più e sempre meglio gli equipaggiamenti esplosivi alle esigenze di carattere tattico. E i gruppi di opposizione sono sempre un passo avanti alla Coalizione. Questo accade perché la capacità di adattamento degli insorgenti, per forza di cose, è molto più veloce che non per gli eserciti organizzati: aumentare il potenziale distruttivo e penetrante di un Ied è certamente più semplice e veloce che non progettare veicoli sempre più protetti e pesanti (e costosi). Accade così che, a ogni tentativo da parte delle forze di sicurezza di porre rimedio al gap dell’auto-protezione, la risposta degli insorgenti si dimostra sempre terribilmente efficace; lo possono quotidianamente verificare le forze della Nato quanto i mujaheddin siano capaci di offendere. E aumento del livello di protezione significa necessità di dispositivi più potenti per poter arrecare danno: un circolo vizioso che influisce sensibilmente sulle statistiche delle vittime collaterali, i civili.
Muneeb sottolinea che i risultati ottenuti contro le forze di sicurezza non sono che una conferma della bontà della tecnica Ied. La componente militare dell’Emirato islamico implementerà ulteriormente questo tipo di tattica – Ied warfare – aumentando il numero di unità autonome, migliorando la qualità degli equipaggiamenti e perfezionando l’addestramento degli stessi operatori Ied – anche attraverso il ricorso a “istruttori stranieri” – in modo da poter essere sempre più abili e professionali e di poter colpire con sempre maggior frequenza ed efficacia. Parlano i numeri, gli attacchi si sono moltiplicati negli ultimi mesi e non accennano a diminuire.
E a nulla servono escamotage come il divieto di vendita di ammonio nitrato, fertilizzante utilizzato per la costruzione di bombe Ied, che ha ottenuto come unico risultato quello di far infuriare intere comunità rurali dedite all’agricoltura.
Una tecnica semplice, dunque, in risposta alla complessità tecnologica delle sofisticate procedure di guerra. Una tecnica che funziona e che produce risultati terribilmente concreti.

28 settembre 2010

martedì 14 settembre 2010

Mullah Omar il politico

In occasione della ricorrenza islamica dell’Eid-ul-Fitr, il mullah Omar, Amir-ul-momineem dell’Emirato islamico dell’Afghanistan (IEA), è tornato a far sentire la sua voce al popolo afghano e alla Comunità internazionale. Lo ha fatto in maniera ufficiale, con un comunicato stampa, al pari dei più importanti capi di Stato del mondo.
La politica, e con essa tutte le formalità del caso, è ormai lo strumento di cui hanno imparato servirsi i taliban e i gruppi di opposizione armata della regione. Compromessi, propaganda, accuse e minacce; tutto questo supportato da una campagna militare efficace e dirompente che ha portato gli “insorgenti-oppositori” a divenire soggetto politico di primo piano per la risoluzione di un conflitto di “liberazione nazionale” in grado di alimentare quella che ormai è una guerra civile di ampia portata.
I taliban si pongono di fronte all’Onu come soggetto forte, in grado di concedere tregua e apertura al dialogo. Lo hanno fatto pubblicamente qualche settimana fa aprendo, con evidenti finalità propagandistiche, alla possibilità di una commissione congiunta Onu-IEA per accertare le responsabilità delle uccisioni dei civili nel conflitto. Lo fanno oggi, seguendo una propria politica basata su una particolare dottrina di “controinsorgenza dei mujaheddin”. Una risposta al modello di counterinsurgency statunitense, e in contrapposizione ad esso. Dunque stesso linguaggio, ma più semplificato, stessi strumenti, ma più adeguati alle esigenze culturali afghane e meno dottrinali, e stesse finalità, la conquista dei cuori e delle menti della popolazione civile. Anche il modello politico proposto è un’alternativa a quello della Repubblica islamica di Karzai, con obiettivi più limitati, ma in grado di presentare un progetto politico che fa riferimento a dialogo, collaborazione, giustizia, sicurezza e lotta contro i soprusi e l’occupazione da parte di eserciti stranieri.
Il messaggio politico del mullah Omar si rivolge a tutti gli attori del conflitto afghano: la nazione, i mujaheddin, i religiosi e gli intellettuali, gli ex-combattenti e i rappresentanti dello Stato, l’opinione pubblica straniera e le forze della Coalizione e, infine, il governo e il popolo degli Stati Uniti. Un discorso pragmatico che si pone contemporaneamente sul piano ideologico del Jihad, della politica e militare della lotta di liberazione.
L’appello all’unità dei gruppi di opposizione che giunge dal vertice del movimento taliban mette però in mostra attriti e difficoltà di accordo tra le differenti fazioni dell’insorgenza; difficoltà che si traducono in antagonismo, competizione e conflitti che però, secondo il capo dei taliban, è necessario accantonare in aderenza al Jihad e alla lotta per la difesa della sovranità di un paese islamico e dell’Islam in generale. In tale contesto l’operazione della Coalizione volta a creare le Forze di polizia locali viene presentata come ulteriore tentativo di divisione degli animi e delle coscienze del popolo afghano, un frammentazione indotta che si affianca agli zoppicanti tentativi di riconciliazione e reintegrazione e del processo elettorale in corso.
La chiamata “alle armi” si rivolge anche a quella che è l’intellighenzia dell’Afghanistan – dottori, politici, insegnanti, religiosi – il cui contributo richiesto è l’impegno per l’unità nazionale, essenziale per un forte governo islamico largamente condiviso. Un’unità che deve coinvolgere tutti i “fratelli mujaheddin” chiamati a combattere una guerra contro un nemico definito e a difendere la popolazione dagli effetti devastanti di una guerra che si combatte per le strade, tra le case.
L’Occidente è in difficoltà in Afghanistan, questo è un fatto. I Mujaheddin non possono che trarre vantaggio dalla confusione dei comandi della Coalizione, dai loro fallimenti e dalle errate strategie che hanno comportato solamente sprechi di risorse umane ed economiche e indotto l’opinione pubblica occidentale a insistere per la ricerca di una exit strategy. E se gli occidentali sono confusi e frastornati dalla violenta resistenza afghana, questo deve indurre i combattenti per la libertà a essere sempre più uniti, nel rispetto delle gerarchie e delle decisioni approvate dai “consigli”, attenti alla popolazione civile e agli interessi generali della nazione afghana in considerazione degli obiettivi finali e delle capacità operative e politiche del nemico. Gli ordini del mullah Omar sono chiari, così come le sue “preoccupazioni formali” per la popolazione. Ogni precauzione deve essere presa per garantire la sicurezza dei civili, della proprietà privata e delle infrastrutture utili per le necessità quotidiane delle comunità. La società civile, che deve essere parte della resistenza e non un’entità separata da essa, deve essere sempre protetta attraverso il rispetto delle regole indicate nel Layeha, il codice di guerra dei taliban, senza che violenze gratuite o punizioni sbrigative portino a sofferenze non necessarie. Soldati e poliziotti governativi devono essere avvicinati e indotti a scegliere per la giusta causa al fine di poter contare su soggetti infiltrati all’interno delle forze di sicurezza statali per operazioni contro gli invasori e i loro “collaborazionisti”.
La “casta della società”, insegnanti, religiosi uomini politici, scrittori, intellettuali e poeti, sono il ponte ideale tra il popolo e l’Emirato e per questa ragione devono svolgere l’importante compito di rendere noto a tutti quanto l’occupazione militare sia la causa delle atrocità e delle sofferenze a cui è sottoposto il popolo afghano. Il loro compito è quello di mostrare alle nuove generazioni qual è la strada “giusta” da seguire, rifiutando pericolose contaminazioni culturali e religiose provenienti dall’esterno, e di creare una felice e stimolante “atmosfera islamica”.
Coloro che hanno abbandonato il campo di battaglia per aderire al processo di riconciliazione non devono dimenticare gli sforzi fatti da intere generazioni di mujaheddin per cacciare i nemici che con il tempo si sono alternati nel portare sofferenza all’Afghanistan; la resistenza contro l’invasore è un dovere sacrosanto e irrinunciabile. La minaccia di essere puniti come traditori è esplicita per coloro che si sono lasciati convincere ma una porta viene lasciata aperta per coloro che vogliono rientrare nei ranghi dei mujaheddin; anche il perdono e la riconciliazione trovano posto, così come nei discorsi di Karzai, anche nell’appello dei taliban: amnistia e sicurezza vengono offerti a chi decide di abbandonare le forze di sicurezza o l’incarico governativo.
Quello presentato dai taliban è un programma di riforma islamica a livello di politica interna dell’economia, della legalità, della sicurezza, dell’educazione, della giustizia attraverso l’opera di esperti dotati di provata capacità professionale e intellettuale, senza discriminazione alcuna di carattere politico, etnico e linguistico, nel rispetto dei diritti “islamici” del popolo, incluse le donne, e contrastando l’immoralità e l’ingiustizia, l’indecenza e tutti gli altri vizi. A livello di politica estera i taliban danno il benvenuto a una cooperazione a livello regionale con i Paesi confinanti con l’Afghanistan, sul principio della non ingerenza negli affari interni e con una promessa collaborazione per risolvere i problemi legati all’economia, al commercio, al narcotraffico e all’inquinamento.
L’appello alla Ummah e a un mondo islamico in generale ormai in pericolo di aggressione da parte dell’Occidente, ricorda a tutti i musulmani il dovere di partecipare alla “resistenza”, un obbligo per la difesa della propria religione e della propria cultura. Un richiamo che non dimentica di fare un parallelo tra Afghanistan, Iraq e Palestina, legati dal comune libro sacro; in tale situazione rimanere neutrali è un delitto e pertanto gli afghani devono assumersi la responsabilità di difendere l’Ummah islamica, così come hanno difeso l’Afghanistan dai tempi delle invasioni di Alessandro il Macedone sino a oggi.
Un ultimo appello viene fatto ai governi componenti la Coalizione internazionale affinché rinuncino a sostenere gli interessi coloniali degli Stati Uniti così da evitare l’inutile sacrificio dei propri soldati e le ingiustizie e i crimini di guerra contro la popolazione afghana, in particolare contro le future generazioni.
La guerra più lunga degli Stati Uniti, dopo nove anni non ha ottenuto neanche un risultato positivo; strategie dopo strategie hanno causato solamente un aumento progressivo del numero dei morti. La ricerca di una exit strategy basata sull’aumento dei soldati è solamente un escamotage per spostare il problema avanti nel tempo e per inasprire i conflitti interni di un Afghanistan che conosce solamente guerra. Tentativi di creare milizie tribali, la strategia semantica di dividere tra taliban moderati e radicali, le conferenze infruttuose, le Jirga illegittime, il processo elettorale, la propaganda subdola sarebbero tutti espedienti per non ammettere la sconfitta. Forza e coercizione non hanno effetti sugli afghani, se non quelli di unirli ancora di più nella difesa contro il nemico esterno. Ritiro senza condizioni delle truppe straniere dall’Afghanistan, questa è la perentoria conclusione del mullah Omar.
Leggendo il discorso dell’Amir-ul-momineem, almeno la parte relativa al dialogo tra afghani, pare quasi di leggere il “bignami” del programma che Karzai ha presentato alla Peace Jirga di giugno, più semplificato, meno oneroso ma non meno ambizioso. Riproponendo un piano speculare a quello di Karzai, il mullah Omar e i suoi consiglieri non hanno dimostrato molta fantasia ma certamente una grande capacità di adattamento e di visione a lungo termine. Non vi sono più accuse dirette al governo di Karzai, ma tutta la violenza verbale è concentrata sulle forze di sicurezza occidentali. Un segnale positivo per l’apertura al dialogo tra i legittimi soggetti politici afghani? Verosimilmente sì, è un segnale di possibile apertura, anche se non ufficializzato. La vittoria della nazione islamica contro gli invasori infedeli è imminente, lo sostiene il leader dell’Emirato afghano; forse non una vittoria immediata sul campo di battaglia ma quello che è certo è che la vittoria del movimento di resistenza dei mujaheddin afghani si basa sul principio della mancata sconfitta, della sopravvivenza ai sempre più consistenti, ma non per questo più efficaci, surge occidentali. Sopravvivere al ritiro delle forze occidentali è la vittoria dei taliban nella guerra civile afghana.

11 settembre 2010