Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

giovedì 30 maggio 2013

CeMiSS Osservatorio Strategico 1/2013: IL RUOLO DELLA COMPONENTE MILITARE INTERNAZIONALE NELL’AFGHANISTAN POST 2014


di Claudio Bertolotti 



Come il precedente, il 2012 è stato un anno particolarmente impegnativo per le forze di sicurezza della missione Nato a guida statunitense. 398 sono i soldati stranieri caduti negli ultimi dodici mesi (fonte icasualties.org), di questi 209 sono statunitensi, 44 del Regno Unito e 45 delle altre nazioni componenti l’alleanza (l’Italia ha registrato complessivamente 7 soldati morti).
La guerra afghana – che vanta il non invidiabile record di più lunga guerra combattuta dagli Stati Uniti – è costata nel complesso 3.069 caduti militari stranieri (2226 statunitensi; 52 i militari italiani), 6.600 soldati delle forze di sicurezza afghane (1.100 negli ultimi sei mesi) e circa 30.000 civili (dati aggiornati al 31 marzo 2013).
La futura presenza militare in Afghanistan. Quali numeri?
Per rispondere a questa domanda è prima necessario tentare di dare una risposta a un altro quesito: gli Stati Uniti devono continuare a condurre operazioni di controterrorismo in Afghanistan e in Pakistan?
Questa è la questione centrale in qualunque discussione che riguardi la presenza e la missione militare in Afghanistan.
Secondo alcuni esperti statunitensi – si cita Kimberly Kagan (presidente dell’Institute for the Study of War) – la risposta sarebbe indubbiamente sì se la strategia per l’Afghanistan rimanesse quella attuale, portando a 68.000 le truppe sul terreno nel 2014 e dimezzandole nel corso del 2015. Dunque una presenza significativa forte di circa 30.000 uomini. La questione si sposta allora sul piano logistico.
La presenza fisica di truppe sul terreno richiede un notevole sforzo logistico, proporzionato alle truppe operative e adeguato alle misure minime di auto-protezione. La svolta strategica della missione in Afghanistan punta a due obiettivi formali (e sostanziali): il disimpegno dalla guerra combattuta (e non vinta) e il mantenimento di basi strategiche e operative in territorio afghano (obiettivo in fase di definizione).
Dunque, la strategia statunitense è evidentemente orientata a una prosecuzione della guerra a distanza, attraverso l’etichetta di controterrorismo – avendo de facto archiviato in via definitiva – l’opzione della counterinsurgency.
In sintesi – meglio di quanto già tentato in Iraq – Washington vorrebbe mantenere una presenza militare minima a tempo indeterminato, al momento ipotizzabile sino al 2024.
Dopo mesi di dibattiti, l’allora comandante in capo della missione militare in Afghanistan, il generale John R. Allen, si è espresso suggerendo al presidente degli Stati Uniti di mantenere un adeguato contingente di truppe sul terreno al termine della missione Nato-Isaf (a partire dal 1 gennaio 2015), momento in cui Stati Uniti e Nato avranno formalmente trasferito la responsabilità della sicurezza alle autorità afghane.
Secondo il New York Times, fonti vicino al Pentagono confermerebbero la redazione di tre differenti ipotesi militari:
1.        La prima dovrebbe prevedere l’impiego di una forza residua di 6.000 soldati statunitensi dopo il 2014, il cui impiego dovrebbe essere prevalentemente di tipo contro-terrorismo, con operazioni mirate su obiettivi di alto valore in territorio afghano e pakistano (al-Qa’ida e taliban).
2.        La seconda opzione si baserebbe sulla permanenza di 10.000 soldati, garantendo agli Stati Uniti una significativa presenza e la capacità di proseguire con l’addestramento e la preparazione delle forze di sicurezza afghane (Ansf).
3.        Infine, la terza possibilità: 20.000 soldati. È l’opzione preferibile per i vertici militari statunitensi poiché l’unica che consentirebbe alle truppe convenzionali (e dunque non solo forze speciali/contro-terrorismo) di continuare a muoversi sul campo di battaglia, addestrare le Ansf, e condurre limitate operazioni.
A queste tre se ne aggiunge una quarta, non auspicabile né opportuna sul piano della real-politik; il Presidente Obama, durante l’incontro ufficiale di gennaio con il Presidente Karzai, ha avanzato a sorpresa un’«opzione zero»: ritirare tutte le unità dal teatro afghano. Una mossa politica volta a porre sotto pressione Karzai, ma che è riuscita a destare un certo stupore negli ambienti politici statunitensi e nelle cancellerie europee.
La ragione di questa scelta discende dalla contrapposizione tra Washington e Kabul in merito al futuro ruolo militare statunitense nel post-2014, in particolare per quanto riguarda l’immunità dei soldati americani che Karzai avrebbe voluto cancellare, così da consentire alla giustizia afghana di poter intervenire in caso di infrazioni gravi (una mossa rivolta alla politica interna più che alle relazioni internazionali). Il diniego dell’amministrazione Usa e il successivo dialogo negoziale hanno portato a una soluzione di compromesso basata su una riduzione rilevante della presenza di soldati stranieri – ma comunque sufficiente per poter intervenire in maniera efficace “anche” a sostegno delle Ansf – a fronte del mantenimento di nove basi militari sotto giurisdizione statunitense. Un evidente vantaggio per entrambe le parti.
Nella sostanza, affrontando il problema dal punto di vista tattico, scartate le opzioni “zero” e  “uno” (nessuno o 6000 soldati) considerate dagli stessi vertici del Pentagono come le meno preferibili perché fortemente limitanti, non resta che definire nel dettaglio l’impiego operativo delle 10-20.000 truppe che rimarranno in Afghanistan per condurre azioni mirate di tipo contro-terrorismo e addestrare le forze di sicurezza afghane.
Il sostegno necessario alle forze di sicurezza afghane
In contemporanea allo sforzo sul piano politico per un’accelerazione del disimpegno dal conflitto, il Pentagono ha recentemente presentato una relazione tutt’altro che rassicurante sulla generale situazione afghana, tanto sul piano militare, quanto su quello sociale ed economico. Dal report “Progress Toward Security and Stability in Afghanistan”, pubblicazione semestrale destinata al Congresso degli Stati Uniti, emergono preoccupanti segnali di allarme. In sintesi:
-       Nel complesso delle forze di sicurezza, solo una brigata delle 23 componenti l’esercito afghano sarebbe classificata come “operativa e indipendente” senza il supporto aereo o terrestre da parte delle forze della Coalizione;
-       Le Ansf – in particolare a livello di brigata – dipendono completamente dalle forze CF-Isaf per:
o  Comando e controllo.
o  Comunicazioni;
o  Supporto aereo;
o  Capacità intelligence;
o  Logistica.
-       Il livello di diserzione delle Ansf desta preoccupazione: dall’8% (fonte ministero dell’interno afghano) al 25% (fonte open source, “The Guardian”);
-       La violenza è più elevata oggi di quanto non lo fosse nel periodo precedente al surge militare dell’estate del 2010.
-       La dilagante corruzione continua a indebolire lo Stato centrale;
-       La capacità tecnica dei funzionari e dei dirigenti statali non è adeguata;
-       Ridotto collegamento tra centro e periferia (in particolare le aree rurali) legato a ragioni di sicurezza;
-       Carenza di coordinamento tra governo centrale e amministrazioni locali (provinciali e distrettuali);
-       Iniqua distribuzione dei poteri tra organi giudiziario, legislativo ed esecutivo;
-       Sostegno, diretto/indiretto, del Pakistan continua ai gruppi insurrezionali operativi in Afghanistan;
-       Gli attacchi green on blue (o insider attack) perpetrati da membri delle Ansf contro i militari della Coalizione continuano a registrare un aumento significativo in quantità e in efficacia: 61 azioni nel 2012 (15% dei caduti CF-Isaf), contro le 35 del 2011 (6% dei caduti CF-Isaf)
-       Le valutazioni sui gruppi di opposizione armata (Goa), in particolare i taliban, confermano la volontà e la capacità dell’insurrezione afghana di migliorare le proprie tattiche e tecniche in maniera efficace (in particolare Improvised explosive device – Ied – e attacchi mirati contro obiettivi di altro profilo);
-       Il fenomeno insurrezionale dimostra una significativa capacità rigenerativa;
-       Sebbene sia ridotta la capacità di infliggere danni gravi alle forze CF-Isaf, i Goa ottengono risultati positivi in azioni di tipo “assassinii mirati, rapimenti, tattiche intimidatorie, green on blue, propaganda e comunicazione”;
-       Sul piano propriamente operativo, si rileva una correlazione tra presenza militare straniera (e delle Ansf) e numero di attacchi: all’aumento delle truppe CF-Isaf corrisponde un aumento di attacchi da parte dei Goa, al contrario a una diminuzione della pressione militare segue una riduzione degli attacchi insurrezionali.
Non mancano alcuni, pochi, dati positivi:
-       Prosegue il passaggio di responsabilità alle forze di sicurezza afghane;
-       Aumenta la percentuale di operazioni militari condotte sotto comando afghano;
-       Si riduce il livello di violenza nelle aree urbane, in particolare Kabul e Kandahar.
Questioni e problematiche non nuove per gli osservatori del conflitto afghano, ma che vengono amplificate dal particolare momento storico del disimpegno dal conflitto.
Se John R. Allen, l’ex comandante della missione in Afghanistan, ha voluto insistere sulla necessità di mantenere una parte consistente delle 68.000 truppe al momento schierate sul campo afghano lo fa a ragion veduta e con la consapevolezza dell’effettivo livello operativo e delle non incoraggianti capacità proprie delle Ansf. I problemi ci sono, e non sono limitati; ma non per questo è possibile escludere che l’amministrazione Obama possa accelerare il disimpegno dal conflitto afghano riducendo i numeri sul campo per rispondere a esigenze di politica interna, così chiudendo (sebbene solo sul piano formale) una guerra sempre più impopolare.
Tutto potrebbe dipendere da quello che faranno i taliban; da un lato aderendo al processo negoziale volto a una soluzione di compromesso, dall’altro lato riuscendo a colmare i vuoti lasciati dal processo di arretramento delle forze Cf-Isaf e, verosimilmente, tornando laddove il surge militare del 2010 li aveva indotti ad abbandonare (temporaneamente) il campo.
Breve analisi conclusiva
Rendere le Ansf in grado di gestire il conflitto facendo ricorso alle proprie risorse è un obiettivo non ancora raggiunto, difficilmente lo sarà alla fine del 2014.
V’è poi da tenere in considerazione il fattore Pakistan. Le relazioni diplomatiche tra Islamabad e Washington si sono raffreddate negli ultimi anni, registrando momenti di particolare asprezza. Ciò nonostante, il Pakistan ha recentemente riaperto i valichi di frontiera ai mezzi logistici Cf-Isaf da e per l’Afghanistan; ma le tensioni rimangono, così come rimangono i santuari dell’insurrezioni all’interno delle aree tribali pakistane.
Infine, le elezioni presidenziali dell’aprile 2014. Un anno ci separa dalle elezioni per il nuovo presidente afghano; un anno in cui si dovrebbero definire i ruoli di tutti gli attori del conflitto e di quelli regionali.
Per la prima volta dal 2001, l’Afghanistan avrà un nuovo presidente, un nuovo esecutivo e un nuovo parlamento (2015): una transizione dei poteri che potrebbe comportare serie implicazioni per le forze militari straniere che rimarranno sul suolo afghano, indipendentemente da quante esse saranno, e conseguenze significative sul piano politico interno. Il possibile rischio di guerra civile e una parziale o totale disintegrazione dello stato afghano non sono da escludere, in particolare prendendo in considerazione la reazione dei gruppi di potere non-pashtun verso una possibile apertura ai taliban (si rimanda a “La ripresa del «warlordismo»: da Herat la scintilla di una nuova guerra civile?”, in “Osservatorio Strategico” 11/2012). Se questo scenario dovesse realizzarsi, 6.000, 13.000 o 20.000 soldati potrebbero non fare la differenza.



APPELLO PER I DIRITTI DELLE DONNE AFGHANE

La Women’s Network ha espresso preoccupazione in merito all’intenzione del Parlamento afghano di modificare i principali articoli delle legge contro la violenza sulle donne, promulgata dal presidente Karzai nel 2009. Le modifiche comporterebbero una riduzione dei diritti e dei progressi conseguiti negli ultimi dieci anni. Nella sua forma attuale, la legge punisce il matrimonio forzato delle ragazze minori di sedici anni, gli atti di vendita, le percosse e lo stupro di donne, l’induzione all’auto-immolazione e tutte le forme di violenza. Secondo Heather Barr di Human Rights Watch, sebbene l’attuale legge sia in genere ignorata e di rado applicata, la sua esistenza rappresenta comunque un segno di progresso e qualunque sua modifica sarebbe un danno grave per i diritti delle donne afghane.
AUSPICO CHE IL NOSTRO PAESE (che è impegnato in Afghanistan ed è tra i maggiori contributori internazionali) VOGLIA FAR SENTIRE LA PROPRIA VOCE IN MERITO

Claudio Bertolotti

sabato 25 maggio 2013

Le ragioni per colpire Kabul. Commando-suicida nella capitale afghana: tra i feriti grave una funzionaria italiana


di Claudio Bertolotti

INSTANT ANALYSIS
articolo pubblicato su OsservatorioIraq

Un commando-suicida colpisce Kabul nelle aree di Wazir Mohmmad Akbar Khan e Kart-i-se, il cuore della capitala afghana, provocando 4 vittime e 13 feriti tra le forze di sicurezza locali e la popolazione civile. Ferita gravemente anche Barbara De Anna, una funzionaria italiana dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), immediatamente soccorsa e ricoverata presso l’ospedale di Emergency e successivamente trasferita in quello statunitense di Bagram.
È il secondo attacco di questa tipologia registrato nell’ultima settimana nella capitale afghana (dopo quello del 16 maggio); il sesto dall’inizio dell’anno a cui se ne aggiungono ulteriori due falliti (il triplo rispetto al 2012).
Fonti locali confermerebbero due esplosioni in successione avvenute in prossimità dell’ospedale dei servizi di sicurezza governativi (Nds, National Directorate of Security) e della sede dell’Afghan public protection forces (APPF), quest’ultimo sarebbe l’obiettivo principale dell’attacco sebbene sia stata riportata la presenza di attaccanti anche all’interno della vicina guest-house utilizzata dal personale delle Nazioni Unite; il portavoce dei taliban, Zabihullah Mujahid, ha invece dichiarato che obiettivo era una struttura utilizzata dalla Cia.
Quella dei commando-suicidi è la tecnica di attacco maggiormente utilizzata dai gruppi di opposizione armata afghani – taliban in primis – nelle aree urbane di Kabul, Kandahar e Helmand; i taliban avrebbero rivendicato l’azione verosimilmente portata a termine dalla cosiddetta Kabul Attack Network – dipendente dal gruppo Haqqani – operativa nell’area urbana e suburbana della capitale. Kabul, è evidente, rappresenta un importante obiettivo, strategico e simbolico al tempo stesso; qui, dove le opportunità di colpire obiettivi di alto profilo sono elevate e garantiscono una eco mediatica amplificata, negli ultimi quattro anni la collaborazione tra i gruppi di opposizione avrebbe portato a un sensibile aumento dei cosiddetti «attacchi spettacolari»: gli attacchi suicidi attirano l’attenzione dei media internazionali, e Kabul è la città in cui vi è la più alta concentrazione di obiettivi simbolici (edifici governativi, sedi diplomatiche, il comando della missione Isaf) e, in particolare, di giornalisti stranieri. Questa tipologia di attacchi ha il potere di attirare l’attenzione dei media internazionali, e a Kabul anche le azioni relativamente fallimentari possono risultare vantaggiose per i gruppi di opposizione armata.
Quelle che si muovono sul moderno campo di battaglia afghano, parallelamente alle altre tecniche della guerriglia, sono unità commando costituite da più combattenti-suicidi affiancati e sostenuti da elementi operativi; vere e proprie operazioni militari, in cui agli equipaggiamenti esplosivi si aggiungono le armi leggere e di sostegno dei nuclei combattenti. Una tecnica, già utilizzata dai pasdaran iraniani nella guerra contro l’Iraq e dai combattenti in Kashmir, che ha dato prova della propria efficacia.
L’episodio, ancora una volta, ha messo in evidenza i limiti della sicurezza della città capitale dell’Afghanistan, e quanto il governo Karzai non sia in grado di contrastare le continue e crescenti minacce. Un risultato eccezionale, quello ottenuto ancora una volta dai gruppi di opposizione armata; al di là degli effettivi risultati tattici prevale la dimostrata efficacia nel colpire e la capacità di attirare l’attenzione mediatica internazionale. Un evento che suggerisce, anticipandoli, gli intenti offensivi dei taliban e i rischi concreti di un Afghanistan post-Nato; detto più esplicitamente: aumenteranno nel breve periodo le azioni offensive (e dimostrative) nella capitale afghana.

vai all'articolo pubblicato su OsservatorioIraq

martedì 21 maggio 2013

Quali sono i numeri dell’impegno militare per l’Afghanistan post-Nato?




di Claudio Bertolotti

Per rispondere a questa domanda è prima necessario tentare di dare una risposta a un altro quesito: gli Stati Uniti devono continuare a condurre operazioni di controterrorismo in Afghanistan e in Pakistan?
Questa è la questione centrale in qualunque discussione che riguardi la presenza e la missione militare in Afghanistan.

Secondo molti esperti la risposta sarebbe indubbiamente sì se la strategia per l’Afghanistan rimanesse quella attuale, portando a 68.000 le truppe sul terreno nel 2014 e dimezzandole nel corso del 2015. Dunque una presenza significativa forte di circa 30.000 uomini. La questione si sposta allora sul piano logistico.

La presenza fisica di truppe sul terreno richiede un notevole sforzo logistico, proporzionato alle truppe operative e adeguato alle misure minime di auto-protezione. La svolta strategica della missione in Afghanistan punta a due obiettivi formali (e sostanziali): il disimpegno dalla guerra combattuta (e non vinta) e il mantenimento di basi strategiche e operative in territorio afghano (obiettivo in fase di definizione).

In sintesi – meglio di quanto già tentato in Iraq – Washington vorrebbe mantenere una presenza militare minima sul lungo periodo, al momento ipotizzabile sino al 2024.

Dopo mesi di dibattiti, l’allora comandante in capo della missione militare in Afghanistan, il generale John R. Allen, si è espresso suggerendo al presidente degli Stati Uniti di mantenere un adeguato contingente di truppe sul terreno al termine della missione Nato-Isaf (dal 1 gennaio 2015), momento in cui Stati Uniti e Nato avranno formalmente trasferito la responsabilità della sicurezza alle autorità afghane.

Secondo il New York Times, fonti vicino al Pentagono confermerebbero la redazione di tre differenti ipotesi militari:

1.        La prima dovrebbe prevedere l’impiego di una forza residua di 6.000 soldati statunitensi dopo il 2014, il cui impiego dovrebbe essere prevalentemente di tipo contro-terrorismo, con operazioni mirate su obiettivi di alto valore in territorio afghano e pakistano (al-Qa’ida e taliban).

2.        La seconda opzione si baserebbe sulla permanenza di 10.000 soldati, garantendo agli Stati Uniti una significativa presenza e la capacità di proseguire con l’addestramento e la preparazione delle forze di sicurezza afghane (Ansf).

3.        Infine, la terza possibilità: 20.000 soldati. È l’opzione preferibile per i vertici militari statunitensi poiché l’unica che consentirebbe alle truppe convenzionali (e dunque non solo forze speciali/contro-terrorismo) di continuare a muoversi sul campo di battaglia, addestrare le Ansf, e condurre limitate operazioni.

A queste tre se ne aggiunge una quarta, non auspicabile né opportuna sul piano della real-politik; il Presidente Obama, durante l’incontro ufficiale di gennaio con il Presidente Karzai, ha avanzato a sorpresa un’«opzione zero»: ritirare tutte le unità dal teatro afghano. Una mossa politica volta a porre sotto pressione Karzai, ma che è riuscita a destare un certo stupore negli ambienti politici statunitensi e nelle cancellerie europee.

La ragione di questa scelta discende dalla contrapposizione tra Washington e Kabul in merito al futuro ruolo militare statunitense nel post-2014, in particolare per quanto riguarda l’immunità dei soldati americani che Karzai avrebbe voluto cancellare, così da consentire alla giustizia afghana di poter intervenire in caso di infrazioni gravi (una mossa rivolta alla politica interna più che alle relazioni internazionali). Il diniego dell’amministrazione Usa e il successivo dialogo negoziale hanno portato a una soluzione di compromesso basata su una riduzione rilevante della presenza di soldati stranieri a fronte del mantenimento di nove basi militari sotto giurisdizione statunitense. Un evidente vantaggio per entrambe le parti.

Nella sostanza, affrontando il problema dal punto di vista tattico, scartate le opzioni “zero” e  “uno” (nessuno o 6000 soldati) considerate dagli stessi vertici del Pentagono come le meno preferibili perché fortemente limitanti, non resta che definire nel dettaglio l’impiego operativo delle 10-20.000 truppe che rimarranno in Afghanistan per condurre azioni mirate di tipo contro-terrorismo e addestrare le forze di sicurezza afghane.

A questo va ad aggiungersi l’incognita dell’impegno elettorale per le elezioni presidenziali dell’aprile 2014. Un anno ci separa da quel momento; un anno in cui si dovrebbero definire i ruoli di tutti gli attori del conflitto e di quelli regionali.

Per la prima volta dal 2001, l’Afghanistan avrà un nuovo presidente, un nuovo esecutivo e un nuovo parlamento (2015): una transizione dei poteri che potrebbe comportare serie implicazioni per le forze militari straniere che rimarranno sul suolo afghano, indipendentemente da quante esse saranno, e conseguenze significative sul piano politico interno. Il possibile rischio di guerra civile e una parziale o totale disintegrazione dello stato afghano non sono da escludere, in particolare prendendo in considerazione la reazione dei gruppi di potere non-pashtun verso una possibile apertura ai taliban. Se questo scenario dovesse realizzarsi, 6.000, 13.000 o 20.000 soldati potrebbero non fare la differenza.