Afghanistan Sguardi e Analisi

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Afghanistan: Sguardi e analisi" è un progetto aperto finalizzato a comprendere e discutere le ragioni - e le possibili soluzioni - dei conflitti afghani.

lunedì 20 gennaio 2014

CeMiSS - L’ostacolo formale della presenza militare straniera in Afghanistan

di Claudio Bertolotti



Kabul, 19 ottobre. Il Segretario di Stato americano John Kerry e il presidente afghano Hamid Karzai hanno annunciato il raggiungimento di un accordo formale relativo alla presenza di truppe statunitensi su territorio afghano a partire da dicembre del 2014, momento in cui scadrà il mandato delle Nazioni Unite e, dunque, decadrà l’immunità per i militari stranieri; un accordo sul Bilateral Security Agreement (BSA) dunque c’è, ma è parziale.
In estrema sintesi, vi è la volontà di siglare l’accordo, mantenere le truppe, definirne la consistenza quantitativa, ma si impone un differente approccio in merito all’immunità che dovrebbero o non dovrebbero avere i soldati stranieri. La questione passa allora in mano al governo afghano che, per ragioni di opportunità pratica lontane dall’essere trasparenti e al di fuori del mandato costituzionale, rimanda la decisione a una costituenda assemblea tradizionale, la Loya Jirga. Da questo gioco delle parti il parlamento afghano, legittimo attore, viene dunque escluso per decisione del presidente. Immediate le proteste, formali, di alcuni candidati alle prossime presidenziali, Abdullah Abdullah – primo antagonista di Karzai – in testa.

Alla ricerca del necessario accordo bilaterale
L’accordo sul Bilateral Security Agreement tra Stati Uniti e Afghanistan potrebbe essere concluso in tempi brevi, sebbene in maniera parziale. Troppi i punti di disaccordo tra le parti in causa, il principale tra questi rimane la questione dell’immunità a cui dovrebbero (secondo i progetti statunitensi) essere assoggettate, a partire dal 2014, le truppe di Washington su territorio afghano. Una questione delicata che potrebbe limitarne, se non del tutto escluderne, la presenza.
È una questione essenziale, e sostanziale, ormai presente in tutti gli appuntamenti che hanno visto incontrarsi le parti in causa nel corso dell’ultimo anno: Washington vuole l’immunità per i propri soldati dalla giurisdizione delle corti giudiziarie afghane; Kabul non è convinta dell’opportunità della concessione di tale immunità.
Se da un lato, sia Kabul che Washington concordano sull’opportunità di una presenza militare statunitense su territorio afghano, dall’altro lato non vi è però una visione comune sui termini che debbano definire lo Status of Forces Agreement (SOFA), da cui derivano le garanzie per i soldati statunitensi e i limiti giurisdizionali delle corti afghane. Karzai ha demandato, come ormai consuetudine e lontano dalla legittimità costituzionale, l’onere di una risposta a una Loya Jirga (assemblea tribale dei saggi) che verrà convocata nel mese di novembre. Sul fronte opposto, il Segretario di Stato John Kerry ha ribadito che senza tale accordo i soldati statunitensi non potranno rimanere in Afghanistan.
Quella di washington non è una richiesta eccezionale, né deve sorprendere poiché ogni nazione che ha impegnato contingenti militari in aree di operazioni gode di status giuridici particolari per i propri soldati; status giuridici volti a tutelare le garanzie di sicurezza e i diritti dei soldati eventualmente incriminati dagli organi giudiziari del paese ospitante. Ciò che è opportuno sottolineare è che la richiesta è comunque riferita all’immunità e non all’impunita dei soggetti, che comunque rimangono assoggettati ai codici e al diritto dello stato di appartenenza.
Al tempo stesso non stupisce la posizione di Karzai, in cerca di sostegno da parte dell’opinione pubblica afghana e dunque spinto ad assumere un atteggiamento meno accondiscendente nei confronti di un soggetto – gli Stati Uniti e con essi gli alleati della Nato – il cui favore popolare si è progressivamente eroso in maniera significativa. Ciò che Karzai vuole evitare adottando un atteggiamento apertamente riluttante alla concessione dell’immunità – di fronte al proprio popolo e al fine di non esporsi all’azione della propaganda avversaria – è l’accusa di rinuncia alla sovranità nazionale. Dunque una scelta strategica dettata dall’opportunità politica del momento, in cui la presenza straniera viene rappresentata e sempre più percepita come occupazione, nonostante la significativa riduzione dei contingenti militari e il formale processo di transizione ("tranche five" – stage, giugno 2014).
Dunque, quale potrebbe essere l’ipotesi più pericolosa nel caso in cui Washington e Kabul non giungessero a una soluzione di compromesso in merito alla questione immunità?
L’ipotesi più plausibile è quella del ripetersi di uno scenario ben noto, quello iracheno. La mancanza di un accordo tra i governi statunitense e iracheno comportò il ritiro completo delle forze di combattimento americane; oggi l’Iraq è stravolto da uno stato di guerra cronico dove le forze di sicurezza locali non sono in grado di contenere, né di contrastare, un fenomeno insurrezionale sempre più capace e aggressivo.
La soluzione politica dal reciproco vantaggio perseguita da Karzai e avallata dagli Stati Uniti: la Loya Jirga
L’assemblea tradizionale dei capi tribali – la Loya Jirga – nominata dal presidente Karzai sarà chiamata a discutere (verosimilmente nella seconda metà di novembre) l’accordo di sicurezza che prevede la presenza dei soldati statunitensi in Afghanistan dopo il 2014: tremila potrebbero essere i partecipanti, ognuno con diritto di parola.
Dal punto di vista di Karzai, detta Loya Jirga dovrebbe esprimere la volontà popolare; al tempo stesso è stato però escluso dal processo dialogico quello che dovrebbe essere l’unico legittimo attore, ossia il parlamento nazionale. Una situazione delicata che, qualora risolta, dovrebbe portare all’accordo che garantirà ai 10.000 soldati statunitensi (a cui si uniranno gli alleati della Nato – e tra questi, con un ruolo leader, anche l’Italia); in caso contrario l’opzione è quella del loro disimpegno e conseguente ritiro, in contrasto con quanto definito nello Strategic Partnership Agreement siglato lo scorso anno dai presidenti Obama e Karzai.
Comunque si concluda questa vicenda, è un fatto che molti dei contingenti stranieri in Afghanistan sono stati ritirati o ridotti dagli stati contribuenti, altri lo faranno entro la fine del 2014; se la Loya Jirga deciderà di non autorizzare la permanenza di truppe straniere su suolo afghano, o negherà loro il necessario status giuridico, questo comporterà il fallimento dell’accordo di cooperazione, aprendo così al peggiore scenario possibile: la temuta “opzione zero”, ossia il ritiro di tutte le forze di sicurezza straniere e la cessazione di qualunque sostegno militare allo Stato afghano.
Sul fronte dei taliban, non si è fatta attendere la dichiarazione formale dell’Emirato islamico
Mentre il governo degli Stati Uniti e quello afghano sono impegnati a definire i dettagli dell’auspicato accordo bilaterale, il mullah Mohammad Omar, leader dei taliban afghani, il 14 ottobre ha rilasciato una dichiarazione ufficiale in cui afferma che il suo movimento continuerà a battersi sul campo di battaglia qualora tale accordo fosse raggiunto. In sostanza, il mullah Omar ha lanciato un ultimatum a entrambi gli attori in gioco: una presenza militare straniera dopo il 2014 non potrà che giustificare la prosecuzione della guerra di liberazione nazionale, il che si traduce, molto semplicemente, in intensificazione del conflitto.
A questo si unisce l’accorato appello a boicottare il processo elettorale per le presidenziali del 2014 e la disponibilità a continuare il dialogo negoziale con la comunità internazionale esclusivamente attraverso l’attività diplomatica dell’ufficio politico dell’Emirato islamico dei taliban a Doha, in Qatar.
Breve analisi conclusiva
Un Afghanistan privato delle forze di sicurezza internazionali vedrebbe l’esercito e la polizia afghani in seria difficoltà nel tentativo di contrasto all’insurrezione dei gruppi di opposizione armata. E comunque sia, anche la ridotta presenza di istruttori e consiglieri statunitensi e della Nato poco potrebbe fare, sul piano operativo, a sostegno delle forze di sicurezza afghane. Nonostante sul piano politico vi siano le più ampie rassicurazioni sulle capacità dello strumento militare di Kabul, ormai pochi sono convinti che ciò possa concretizzarsi in un risultato favorevole, se non attraverso un processo politico-negoziale orientato al compromesso; un compromesso che con il trascorrere del tempo tende sempre più a spostare l’asse delle concessioni a favore del fronte taliban (e dell’insurrezione armata in generale).
Il 18 giugno dell’anno prossimo verrà formalizzato ufficialmente il passaggio di responsabilità alle forze di sicurezza afghane. Ma, è noto – nonostante i proclami ufficiali – che l’esercito afghano non è pronto, non ha copertura né capacità aerea, manca di capacità intelligence e logistica, sia sul piano operativo che su quello tattico, è insufficientemente integrato e necessita di equipaggiamenti per le attività di contrasto alla minaccia Ied (Improvised explosive devices – ordigni esplosivi improvvisati) e, inoltre, tra i suoi membri è elevato il livello di tossicodipendenza (cit. Gen. Dunford, comandante della missione ISAF).
Nel complesso, sono stati spesi miliardi di euro, migliaia di vite umane per una guerra che non è stata vinta: l’impegno della transizione è stato preso anni fa; oggi, pronte o meno, le forze di sicurezza afghane dovranno assumersi l’onere della sicurezza del paese. I timori sono tanti, su entrambi i fronti, e il prezzo da pagare è già stato messo in conto da parte di tutti i soggetti interessati.
I gruppi di opposizione armata, dal canto loro, stanno aspettando proprio il 18 giugno per raccogliere i frutti di una guerra combattuta che, allora, sarà nel suo tredicesimo anno.

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